Sicurezza, cultura e religione: tre aspetti – indissolubili – della vita quotidiana che, a mio avviso, dal punto di vista giuridico e sociale, impongono un’equilibrata riflessione nel merito.

Negli ultimi anni il concetto di sicurezza si è posto quale oggetto privilegiato del dibattito politico e dei sistemi sociali contemporanei. Sicurezza da intendere dunque come situazione soggettiva di tranquillità, dove avvertire la necessità di essere protetti equivale a sentirsi in qualche misura oggetto di minaccia. Nel suo studio sui bisogni dell’individuo, lo psicologo statunitense Abraham Harold Maslow (1908-1970) definisce la sicurezza
come uno tra i più immediati dei bisogni poiché, tra l’altro, consente alle persone di evolvere verso il processo di autorealizzazione (cfr. Antonilli, 2012).

Sotto un profilo etnologico (cioè dello studio comparativo e sistematico delle etnie umane e dei singoli popoli), una prima definizione di concetto di cultura fu data dall’antropologo inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917),
egli la definì come «quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società» (cfr. Cuche, 2006, cit. p. 20). Invece, a proposito di religione, il sociologo francese Emile Durkheim (1858-1917) propose la seguente definizione:«i fenomeni religiosi consistono in credenze obbligatorie, connesse a pratiche precise che si riferiscono a oggetti definiti di queste credenze. La religione è nient’altro che un insieme più o meno organizzato e sistematizzato dei fenomeni di questo genere» (cfr. Pace, 2006, p. 67).

Ciò premesso, l’intento di questo mio intervento è di riuscire a fare emergere quel principio di indissolubilità all’inizio accennato. Cercherò di farlo, senza pretesa di esaustività, prendendo come riferimento l’Islam [1] e in particolare il mese del Ramadan [2] – previsto dal credo islamico e sancito dal correlato diritto – che ogni anno alla sua ricorrenza può arrivare a innescare discussioni fra lavoratori musulmani e alcuni datori di lavoro, e che coinvolge anche buona parte dell’opinione pubblica.

È un fenomeno quello in questione che impone un approccio analitico e allo stesso tempo critico dei fatti, e per questo corroborato da profonda riflessione. Un’analisi né riduttiva né semplicistica, la quale in tal caso falsificherebbe il significato intenzionale di quanto rappresentato. Un’interpretazione che dunque non lasci spazio a mitologie o campanilismi di alcun genere, tipico rischio «presente in ogni tentativo di comprendere una cultura diversa dalla nostra, o uno schema concettuale poco familiare»(cfr. Skinner, 2001, p. 36-37).
Perché proprio l’Islam. Evidentemente perché nel nostro Paese i lavoratori musulmani, osservanti la religione islamica, sono in considerevole costante aumento dovuto alla progressionedemografica derivante non solo da nuovi arrivi,ma anche dal rinnovarsi delle generazioni dei già presenti da anni in Italia.

Ebbene, dialogare e misurarsi con i musulmani richiede sostanzialmente di non equipararli sbrigativamente a quelli che vivono nei Paesi arabi, bensì significa comprendere di essere di fronte a veri portatori di proprie specificità. Significa altresì capire che il modello di convivenza da realizzare è quello nel quale tutti i pluralismi religiosi convivano nella normalità quotidiana, e non nell’eccezionalità del momento (cfr. Chiti, 2011).
Il lavoratore di altra religione, assunto per breve o lungo periodo, è prima di tutto un individuo che vanta, come ogni altro, dei diritti garantiti sia dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” [3] che dalla “Costituzione della Repubblica Italiana” [4]. Ciò significa che a tali principi deve corrispondere una doverosa riflessione di come, evidentemente, è possibile far convivere il diritto di tutela della salute (nel caso in esame dei lavoratori) e quello di libertà di culto.

Il presente contributo ha dunque come obiettivo principale quello di porre l’accento sul fenomeno, cioè cercare di rimarcare quelle che sono le esigenze e i diritti di ognuno, quindi anche di chi professa una fede diversa da quella maggioritaria. Un invito alla riflessione collettiva da parte degli addetti ai lavori (consulenti ed esperti in materia di sicurezza sul lavoro in primis) affinché, a mio modo di vedere, ne tengano conto nell’espletamento della loro funzione soprattutto per quanto riguarda la valutazione dei rischi in generale e derivanti da stress lavoro-correlato in particolare [5], nonché attività di informazione e formazione.

Attività, quella formativa, che credo possa essere accostata per certi versi a quella più completa dell’educazione sociale. Ebbene, credo di poter affermare che se il multiculturalismo fosse inteso come semplice registrazione delle differenze culturali e religiose dei popoli, mantenendo le stesse ben separate leune dalle altre come condizione per laloro coesistenza, il risultato potrebbe essere tutt’altro che la reale integrazione (le problematiche di tutti i giorni lo dimostrano). Quindi, una società ermetica e non comunicante, composta da individui divisi dalla condizione di disuguaglianza sociale, con annesse pregnanti conseguenze (cfr. Chiti, 2011).

Il concetto vale allo stesso modo se il fenomeno si osserva dal punto di vista puramente giuridico. Infatti: «anche se concepita per durare a lungo, la norma nasce oggi, in contesti che domani saranno mutati» (cfr. Ferrari, 2010, p. 124). Questo significa che il legislatore deve essere in grado di stare al passo con il repentino mescolarsi dei modelli culturali. Significa anche che il clima di serenità – e dunque di sicurezza – nell’ambito lavorativo non può essere garantito solo per dettato normativo, ma va ricercato attraverso la corretta analisi e valutazione delle variabili intervenienti, il quale influsso, se non adeguatamente tenuto sotto controllo, può produrre sensibili variazioni sull’intero sistema sicurezza. Ed è su questo punto, sul concetto di serenità e dunque di sicurezza in azienda, che intendo insistere. Del resto, la valutazione dei rischi, come per le altre incombenze sancite dal Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, è stata intesa dal legislatore come fase propedeutica all’adozione delle misure minime di sicurezza, cioè tutto ciò che può e deve essere fatto oltre tali misure al fine di evitare situazioni di pericolo è maestria di chi è in grado di prevedere i probabili rischi, anche quelli apparentemente nascosti. E come potrà essere possibile tutto questo?

Evidentemente accrescendo le conoscenze prima di tutto di chi è prepostoa tale valutazione, o facendosi affiancare da chi possiede le specifiche competenze e conoscenze. Una valutazione, quella dei rischi, che ricade tutta in capo al datore di lavoro, in caso d’infortunio del proprio dipendente o altri soggetti presenti sui luoghi di lavoro. Una responsabilità già sancita dall’articolo 2087 del Codice civile: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Come si può intuire, tale disposizione traccia una linea netta sull’estrema elasticità di previsione, al punto da poterla definire norma di chiusura del sistema sicurezza nel suo insieme, cioè idonea a ricomprendere tutta una
serie assai vasta di situazioni e ipotesi. Su questo fronte, in tanti anni, la giurisprudenza (penale e civile) non ha fatto altro che rimarcare i suesposti principi; una sentenza fra tutte:

«L’obbligo di prevenzione ex art. 2087 impone al datore di lavoro non solo di adottare le misure tassativamente previste dalla legge, ma anche tutte le altre misure richieste in concreto per salvaguardare la salute del lavoratore» (cfr. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 17314/2004, in D’Agostino, Marano, Solombrino, 2011).

In concreto, e in particolare per quanto attiene alla valutazione dei rischi derivanti da stress, non credo che la stessa potrà mai essere oggetto di valutazione generica, bensì, ragionevolmente, deve continuare a essere oggetto di valutazione soggettiva e specifica, èrgo ad personam. E la stessa valutazione, sempre a mio modesto avviso, non può essere che demandata a soggetti con peculiari conoscenze scientifiche, corroborate da altrettanta esperienza sul campo. Il caso in esame, cioè l’argomento scelto e trattato (religione, cultura, eccetera) ne è solo un esempio, ma chiaramente nonè l’unico che si potrebbe fare.
Ancor prima di parlare di organizzazione della sicurezza (sul lavoro nel nostro caso), quindi piani di sicurezza, valutazione dei rischi e via di seguito, è necessario che l’esperto del settore sicurezza si cali realmente all’interno dell’organizzazione aziendale. È essenziale conoscere non solo cosa si produce in azienda, con quali strumenti e macchinari, in quali strutture o di quali know-how si dispone, ovvero quale prestazione di servizi o d’opera eccetera la stessa propone; ma è fondamentale conoscere anche un po’ più in profondità anche chi presta la propria opera in seno all’azienda stessa: cioè quali sono le sue esigenze, le sue aspettative, se trova soddisfazione o meno in ciò che fa e così via.

A volte si dimentica, o non se ne hadovuta conoscenza, che le organizzazioni in generale, a maggior ragione quelle aziendali-lavorative, possono essere definite tali solo se ricomprendono sia profili di natura soggettiva, sia oggettiva. Cioè nel primo caso (soggettivo) da intendersi come gruppo di persone che opera in funzione di un fine predeterminato e accettato dai singoli attori coinvolti, nonché dotato di struttura propria e autonome regole comportamentali. Nel secondo caso (oggettivo) da intendersi come quel processo mediante il quale si aderisce alla determinazione di un sistema di divisione dei compiti, di rapporti, di relazioni, regole e procedure (Micillo,2010).

Ecco come con tali caratteristiche si compongono quelle che sono definite organizzazioni complesse, che non esistono in natura, vale a dire che sono costituite socialmente per far fronte alla stessa complessità dell’ambiente, cioè alla presenza di molteplici variabili non dominabili dal singolo, e ciò al fine di raggiungere determinati risultati realizzabili soltanto mediante l’impiego di risorse adeguate e l’apporto congiunto, coordinato e protratto nel tempo da più partecipanti, i cui compitisono divisi e integrati (ibidem). Il consulente/esperto di sicurezza, interno o esterno all’azienda, secondo il mio punto di vista, è una di queste risorse. Compiti specifici dunque, espletati da chi possiede dimostrate conoscenze ecapacità atte ad adempiervi.

Per questo credo che si possano valutare i fattori di rischio concernenti lo stress lavoro-correlato solo se si conferisce preventivamente con i diretti interessati. Colloquio che, mi si conceda la ripetizione, può adeguatamente essere condotto da persone con definite specificità. Che tutto questo deve essere affrontato tenendo conto della riservatezza delle persone interessate, della privacy tanto per intenderci – sancita dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n.196 “Codice in materia di protezione dei dati personali” – oltre ad essere scontato avvalora ancor di più, semmai ve ne fosse bisogno, la tesi che certe peculiari attività di consulenza
hanno bisogno di professionisti con specifiche competenze e conoscenze, anche di natura giuridica [6], determinate da idoneo percorso formativo dicarattere scientifico [7]. Se questi sono i principi ispiratori per
una buona e valida analisi del fattore sicurezza – insistendo sul tema oggetto di analisi – chiedo, concedendomi anche una modesta risposta: in ambito di organizzazione aziendale, dunque lavorativo, può cagionare possibile condizione di stress impedire l’adempimento a dei precetti (in questo caso religiosi) imposti da una determinata cultura?

A mio avviso la risposta è affermativa. Inoltre: è possibile affrontare la questione e trovare formule che soddisfino la sicurezza dei lavoratori e i diritti diognuno anche al fine di mantenere ed eventualmente recuperare un clima di serenità sia nell’ambito lavorativo, siain quello familiare e sociale più in generale? Ragionevolmente credo che ciò sia fattibile, se si conosce a fondo il problema da affrontare e se si abbandona qualsiasi forma di pregiudizio.
In caso contrario, il rischio, e terminoil mio intervento, può essere rappresentato da situazioni pregiudizievoli nei confronti dei gruppi minoritari, così come da definizione data nel 1945 dal sociologo tedesco-statunitense Louis Wirth (1897-1952): «Possiamo definire minoranza un gruppo di popolazione che, a causa delle sue caratteristiche fisiche o culturali, si distingue dagli altri all’interno della società in cui vive per il trattamento differenziato e diseguale cui è sottoposto, e che per questa ragione considera se stesso oggetto di discriminazione collettiva. […] Dalla condizione di minoranza deriva l’esclusione dalla piena partecipazione alla vita della società» (cfr. Marta, 2005, p. 45). Scrisse Calamandrei (1889-1956): «La libertà di culto, di stampa, di pensiero,di riunione […], la uguaglianza dei cittadini nonostante ogni diversità di razza o di religione, sono considerate come estrinsecazioni insopprimibili della personalità umana, che non si potrebbero menomare senza per questo sopprimere la libertà. Le leggi possono far tutto meno che sopprimere questi diritti intangibili […]» (cfr. Calamandrei, 2013, p. 28).

Note.
[1] L’Islam è una religione che impone regole sia di tipo spirituale sia temporale, che nel corso dei secoli ha organizzato queste regole sviluppando così «un complesso ed originale ordinamento giuridico»
(cfr. Fiorita, 2010, p. 5). Il Corano (testo sacro) è la prima di quelle che i giuristi occidentali definirebbero come fonti di produzione del diritto e che i musulmani chiamano invece «radici del diritto». Il Corano non è opera umana, come invece sono i Vangeli, «ma è la Parola stessa di Dio, trasmessa dall’arcangelo Gabriele a Maometto e da questi semplicemente diffusa nella comunità dei fedeli» (ibidem, p. 23). Come avviene per le altre confessioni, anche per l’Islam l’applicazione della legge religiosa si basa sull’irrilevanza del principio di territorialità, ossia non conosce confini
e vale per tutti quelli che appartengono all’Islam indipendentemente dal luogo in cui si trovino a vivere o soggiornare.

[2] Il Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam, il quarto per la precisione, i quali «trovano la loro fonte diretta nel Corano che li istituisce e ne disciplina le modalità di esecuzione» (cfr. Fiorita, 2010, p. 15). Il quarto pilastro (digiuno del mese di Ramadan) è probabilmente l’atto di culto più osservato nel mondo islamico, e il mese di osservanza corrisponde al nono del calendario islamico (2013, 9 luglio-7 agosto). «È nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione. Chi di voi ne testimoni [l’inizio]
digiuni» (cfr. Corano, Sura II, v. 185, trad. it. 2010). «Hanno l’obbligo di digiunaretutti i musulmani puberi, sani dimente e in condizioni fisiche tali da consentire di rispettare il precetto senza danni per la propria integrità fisica. Il digiuno consiste nel non assumere né cibo né bevanda […], nel non ingerire per via orale (né introdurre nel corpo per altra via) alcuna sostanza o medicinale». Il digiuno comincia circa un quarto d’ora prima dell’alba
e termina al calar del sole (cfr. Fiorita, 2010, p. 17).

[3] L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948, proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Subito dopo la deliberazione, fudisposto che la stessa Dichiarazione fosse diffusa in più lingue possibili usando ogni mezzo a disposizione. Estratto: Articolo 18. «Ogni individuo ha diritto alla libertà dipensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religioneo credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».

[4] L’Assemblea Costituente nella seduta del 22 dicembre 1947 ha approvato la Costituzione della Repubblica Italiana,entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Estratto: Articolo 8. «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano». Articolo 32. «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».

[5] Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Estratto. Articolo 28 (Oggetto della valutazione dei rischi), comma 1. «La valutazione […] deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori […] tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro correlato […] nonché quelli connessi alledifferenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi […]».Il concetto di stress lavoro-correlato si ritrova nei contenuti dell’accordo quadro europeo del 2004 recepito in Italia con l’accordo interconfederale
del 9.6.2008, laddove definisce lo stress come una “condizione conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”.
Quando tali richieste e aspettative sono riferite al lavoro allora lo stress riguarda l’ambito lavorativo […] Lo stress lavoro correlato è causato da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro (cfr. Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro, gennaio 2012, Indicazioni per la correttagestione del rischio e per l’attività di vigilanza alla luce della lettera circolare del 18 novembre 2010 del ministero del lavoro e delle politiche sociali.

[6] Da tenere presente che in materia di violazione delle norme concernenti la salute e sicurezza sul lavoro sono previste pesanti sanzioni (fino all’interdizione) anche dal Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche
prive di personalità giuridica”. Estratto:

SEZIONE I. Articolo 1. Soggetti. 1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti
amministrativi dipendenti da reato. 2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica […]. SEZIONE III. Responsabilità amministrativa da reato. Articolo 25-septies. Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Da osservare che la giurisprudenza penale ha ampliato il concetto di organizzazione interna, infatti, la Corte di Cassazione ha sancito che le norme previste dal Decreto Legislativo n. 231/2001 si applicano anche alle imprese individuali. Così argomentando: «È notorio che molte
imprese individuali spesso ricorrono ad una organizzazione interna complessa che prescinde dal sistematico intervento del titolare della impresa per la soluzione di determinate problematiche e che può spesso involgere la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore ma che operano nell’interesse della stessa impresa individuale» (cfr. Corte di Cassazione, III Sezione Penale, Sentenza n. 15657 del 20 aprile 2011, in UTET giuridica).

[7] «La scienza è una vita senza preconcetti. Educare alla scienza vuol dire formare nelle future generazioni una mentalità razionale, che si basi sull’osservazione dei fenomeni e cerchi di trarre leggi generali. Dunque, formarli a esseri liberi nel pensiero, perché non siano vittime di superstizioni e pregiudizi» (cfr. Hack M. [1922-2013] Nova, supplemento del Sole24 Ore 8 luglio 2010, in il Sole24 Ore cultura del 29 giugno 2013).

Bibliografia.
Antonilli A. (2012) Sicurezza sociale, in Cipolla C. (a cura di) La devianza come sociologia, Milano, Angeli.
Calamandrei P. (ed. 2013), Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, Laterza. Chiti V. (2011) Religioni e politica. Le ragioni di un dialogo, Firenze-Milano, Giunti.
Cuche D. (2006) La nozione di cultura nelle scienze sociali, Bologna, il Mulino.
D’Agostino C. e Marano A. Solombrino M. (2011) (a cura di) Compendio di Diritto del Lavoro, Napoli, Simone.
Ferrari V. (2010) Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza.
Fiorita N. (2010) L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul diritto islamico, Firenze, University Press.
Marta C. (2005) Relazioni interetniche. Prospettive antropologiche, Napoli, Guida.
Micillo R. (2010) (a cura di) Elementi di Sociologia dell’Organizzazione, Napoli, Simone.
Pace E. (2006) (a cura di) Per una definizione dei fenomeni religiosi, Roma, Armando.
Piccardo H. R. (2010) (cura e traduzione di) Il Corano, Roma, Newton & Compton.
Skinner Q. (2001) Dell’interpretazione, Bologna, il Mulino.

 

facebooktwittergoogle_pluslinkedin